Scrito da Sergio Ferraris su Qual'Energia.
Il nucleare è una patata bollente.
Sempre, anche quando si vorrebbe chiuderlo. E la cosa riguarda anche e
specialmente il deposito italiano definitivo per i rifiuti nucleari di
bassa e media attività che Sogin si ritroverà a gestire per i prossimi
decenni. La riprova di ciò si è avuta ieri mattina Roma in un evento "ibrido" a cavallo tra la conferenza stampa la formazione permanente per i giornalisti, del resto regolarmente autorizzato dall'Ordine dei Giornalisti, messo in piedi da Sogin.
L'incontro aveva come titolo "Corso
d'aggiornamento professionale Ordine dei Giornalisti. Verso il deposito
nazionale dei rifiuti radioattivi: problema o opportunità?" e ha rafforzato i nostri dubbi sull'informazione energetica in Italia, visto che si è trattata di una comunicazione (o formazione) su una specifica attività aziendale e non su un segmento dell'attività media e stampa, come per esempio, una più generale "informazione sull'energia nucleare".
E
la differenza si è vista subito. L'incontro, infatti, è iniziato con la
descrizione della campagna web di Sogin sull'argomento e il filmato
utilizzato dall'azienda nella difficile opera di comunicazione del
deposito. «Si tratta di una strana occasione perché di solito non si fa un'esposizione ai giornalisti,
ma si viene incalzati dagli stessi», ha detto iniziando la sua
presentazione Emanuele Fontani, Amministratore Delegato di Nucleco,
società del Gruppo Sogin. Il quale ha proseguito in un'esposizione sulla
normalità delle radiazioni, citando oggetti d'uso
comune lievemente radioattivi, quali il rivelatore di fumo o il
parafulmine che ionizza l'aria attraverso delle piccole sorgenti
d'americio, ponendo l'accento su tutto ciò che è naturalmente
radioattivo e affermando che la radioattività, al contrario di altre
fonti d'inquinamento può essere, una volta accertata, confinata. Cosa
rassicurante e vera, in linea di massima, ma che diventa opinabile nel
caso di incidenti nucleari nelle centrali atomiche o nei centri di
ricerca dove si manipolano materiali ad alta attività. Ossia quando la
radioattività sfugge.
Discorso
analogo sulla rassicurazione circa il decadimento della radioattività
del Cesio 137, esponendo il quale è stato citato, l'unica volta durante
l'intera mattinata, l'incidente di Chernobyl che lo ha distribuito in
tutta Europa. La tesi di fondo è stata quella che, avendo il Cesio 137,
un'emivita (ossia un periodo di dimezzamento dell'emissione radioattiva)
di 30,17 anni, se confinato non è pericoloso sul lungo periodo. Si
tratta di una tesi più che ragionevole che però ha un paio di difetti.
Il primo è che non si può prendere una singola sostanza per determinare
la pericolosità generale delle scorie radioattive, mentre la seconda è
che induce in una sorta di rassicurazione sul fatto che
il tempo metta in sicurezza di per se stesso le scorie nucleari. Così
come appare rassicurante il fatto di evidenziare, con parecchia enfasi,
che la radioattività sulla maggior parte dei componenti degli impianti
si concentra su una superficie spessa pochi micron, oppure che la
radioattività deriva anche da processi industriali e sanitari.
Si è taciuto invece delle difficoltà tecniche dello
smantellamento del reattore gas-grafite di Borgo Sabotino, nel quale ci
sono oltre 2.000 tonnellate di grafite ad alta radioattività che
dovranno attendere, con ogni probabilità, la creazione del deposito
geologico definitivo e non quello di cui si parla, mentre qualche tempo
fa ciò è emerso da un documento ufficiale del Governo britannico,
pubblicato su La Nuova Ecologia. Non si è ricordato
nemmeno che le operazioni di smantellamento degli undici reattori
gas-grafite inglesi saranno terminate nel 2115 - tra cento anni,
avete letto bene - perchè le autorità britanniche attenderanno la
diminuzione naturale della radioattività per mettere mano alla parte
centrale del reattore. E a proposito dei depositi geologici per le
scorie ad alta attività l'accenno è stato breve e solo all'esperienza
francese, mentre nulla si è detto sul fallimentare sito di Yucca Mountain
negli Usa, costato 7,7 miliardi di dollari, 20 anni di lavoro e
abbandonato per inadeguatezza geologica o sul deposito finlandese di
Onkalo che è "progettato" per resistere fino alla veneranda età di
100mila anni, quando le Piramidi d'Egitto ne hanno solo 4.500.
Successivamente
è stata la volta di Roberto Moccaldi. presidente di AIRM (Associazione
Italiana di Radioprotezione Medica) che ha parlato del concetto probabilistico
del danno, ribadendo, cosa corretta, che non c'è danno automatico se
non si supera un certo livello di radiazioni, sottolineando che al di
sotto di una certa soglia epidemiologica non ci sono dati efficaci,
sfiorando quindi il principio di precauzione in questo caso - che non è
mai stato citato - ma mettendo immediatamente l'accento sul fatto che in
alcuni casi, come quello degli screening mammografici, il rapporto
benefici rischi delle radiazioni, impiegate per l'esame, è altamente
positivo.
I dettagli del nuovo deposito
sono arrivati da Fabio Chiaravalli, il direttore del deposito nucleare e
parco tecnologico Sogin che ha iniziato dicendo: «nel deposito saranno
allocati i rifiuti nucleari a bassa e media intensità attendendo che
passino 300 anni, che non è tanto, si tratta di un tempo umano, storico.
Dopo di che il luogo potrà essere rilasciato e non sarà più considerato
un luogo radioattivo». Chiaravalli ha posto l'accento sul fatto che la
situazione in Italia è molto più che precaria, visto che abbiamo le
scorie nucleari divise in decine di siti spesso in condizioni precarie,
ma nessun accenno è stato fatto agli incidenti della Casaccia del 2006, riguardanti il plutonio, che testimoniano il pessimo stato dei depositi provvisori e precari italiani.
«Sogin
sta facendo un'intensa attività di comunicazione - ha ribadito
Chiaravalli - con decine di eventi come questi e ne abbiamo in programma
ancora molti». Il direttore ha continuato circa il fatto che anche se
l'Italia è in ritardo rispetto agli obblighi europei - l'Unione Europea
ci impone una decisione entro agosto 2015, pena una procedura
d'infrazione - in realtà questo è un vantaggio perchè avremo un deposito più aggiornato
sul fronte della radioprotezione. Sui dettagli tecnici del deposito si
direbbe che tutto sia a posto. Gli ordini di sicurezza sono quattro e
c'è un sistema in grado di raccogliere eventuali perdite di percolato
radioattivo, anche se fino a oggi siano pochi, forse nessuno, ad avere
sperimentato sistemi in grado di funzionare in maniera sistemica per 300
anni. E non è stato chiaro nemmeno l'accenno ai rifiuti ad alta intensità che dovrebbero essere stoccati in via provvisoria, all'interno di questo deposito in attesa di quello definitivo geologico.
Ma l'esposizione più interessante, sul fronte del tentativo di rendere accettabile il deposito,
è stata quella di Sara Boarin, ricercatrice del Politecnico di Milano,
dipartimento energia, che ha esposto l'impatto economico del deposito.
«Il deposito non è una struttura economicamente passiva che riceve solo
radioattivi e li stocca - ha detto la Boarin - ma crea valore sul territorio attraverso contratti con le aziende fornitrici, posti di lavoro, entrate fiscali e spill over tecnologico». Compreso l'indotto legato all'accoglienza, come in Francia dove c'è un indotto "turistico" formato dai visitatori dei depositi.
Sul
piano dei costi il deposito dovrebbe costare 1,5 miliardi di euro,
creare 1.500 posti di lavoro durante la realizzazione e 700 posti di
lavoro una volta a regime. Ed è proprio questa ultima cifra a suscitare
qualche perplessità visto che al deposito dell’Aube, nei pressi di
Troyes, ci sono 230 addetti diretti e 512 totali contando l'indotto,
mentre a El Cabril in Spagna quelli diretti sono 180. La differenza in
termini di occupazione dovrebbe essere fatta dal Polo tecnologico che però, oltre alla denominazione, è un mistero.
Durante
l'esposizione, infatti, sono stati citati Poli tecnologici che non
hanno nulla a che fare con il nucleare ed è altamente improbabile che
assieme al deposito si vogliano fare dei laboratori per la
sperimentazione e la ricerca sulle scorie nucleari. Per tre motivi. Il
primo è che si ridurrebbe drasticamente l'accettabilità sociale di tutta
la struttura, il secondo è rappresentata dal fatto che non possediamo più l'intera filiera del trattamento
del combustibile e delle scorie nucleari in Italia - infatti per il
trattamento delle nostre scorie ad alta intensità ci siamo rivolti alla
Francia - mentre il terzo è che sarebbe molto difficile trovare imprese
locali, o start up che vogliano investire su tecnologie di trattamento
delle scorie nucleari, vista la presenza di Sogin nel mercato nazionale,
e quella di francesi, statunitensi e inglesi, su quelli esteri.
E poi il fatto che il "Polo tecnologico" possa attrarre imprese da altri settori è una chimera,
visto che si tratterebbe di lavorare, con ogni probabilità, in un luogo
isolato. L'indicazione, quindi, che le imprese e le start up, grazie al
Parco Tecnologico potrebbero accedere al mercato da 80-100 miliardi di
euro del decommissioning europeo è abbastanza opinabile nei fatti,
mentre potrebbe essere vera per Sogin, visto che si sta "facendo le
ossa" sullo smantellamento di quattro centrali nucleari tutte di
tipologie diverse che sono arrivate in molte nazioni a fine vita.
Ultimo accenno alla compensazione che secondo i relatori non deve essere associata in nessun modo al concetto di rischio «perchè la struttura è vicina al rischio zero».
Ed è stato citato il caso delle due cittadine svedesi che concorrendo
entrambe per la localizzazione del deposito hanno deciso che la maggior
parte delle compensazioni sarebbe andata a quella perdente, a causa dei
maggiori "vantaggi" di quella vincente. Per la cronaca si tratta di due
cittadine che sorgono nei pressi di centrali nucleari e il contesto
socio-politico italiano non è assimilabile a quello svedese. «È
possibile comunicare che una struttura di questo tipo ha un impatto positivo sul territorio»,
hanno concluso i relatori invitando i giornalisti a «una corretta
comunicazione al pubblico italiano che deve essere fatto crescere».
Una corretta comunicazione che però non può essere fatta di omissioni, ridondanza di informazioni teoricamente "positive", quasi a sfiorare il marketing
e di ipotesi facilmente smentibili con pochi colpi di mouse. Altrimenti
il pericolo di una comunicazione di questo tipo è proprio quello che in
teoria si vorrebbe evitare: il blocco del deposito nucleare. Che in
Italia deve essere fatto.
(foto: lavori di decomissioning alla centrale di Caorso, cortesia Sogin)
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